La metafora ragliante di questi anni Venti: gli Stooges live
Verso la fine del 2020 arrivò una pioggia di live degli Stooges. E noi li abbiamo comprati tutti, nevvero?
Avviso: fra il 23 e il 26 giugno, per cause di forza maggiore, qui si fermano le rotative.
Ci si vede (per chi ha voglia e tempo di venire e non preferisce stare al pool party - cosa peraltro più che comprensibile) sabato 29 al Festival Beat per la presentazione del mio L.A.M.F. - La leggenda di Johnny Thunders. E poi si riparte con i post, ovviamente.
Era piuttosto raro che Rolling Stone accettasse da me pezzi un po’ di commento (sono piutosto certo che, dopo qualche tentativo, la redazione si era resa conto che no, non ero in grado e/o non sapevo scriverli - il loro campione di questa disciplina, del resto, era Demented Burrcacao), ma in quel novembre 2020 - ancora con il cazzodicovid nell’aria, con mascherine, green pass, pelle delle mani bruciata dai gel igienizzanti e godimenti vari - uscirono una valanga di live degli Stooges. Proposi di scriverne e mi fu dato l’OK. Seghe coi piedi.
Ecco qunque il pezzo suddetto, pre-editing redazionale, con refusi, ripetizioni, cappelle e acrobazie.
Lo zeitgeist del 2020, ovvero: perché compreremo i nuovi live degli Stooges
Sei live in poche settimane sul mercato sono perfetti. La colonna sonora del disfacimento. L’orchestra del fallimento. La transustanziazione della miseria in ferocia e della ferocia in catalessi.
Johann Gottfried Herder neppure avrebbe potuto concepire nei propri sogni/incubi un tipo di esperienza paragonabile a ciò che gli Stooges (e poi Iggy & The Stooges) sono stati fra il 1969 e il 1974. Eppure quando parlò di “zeitgeist”, lo spirito del tempo, forgiò uno strumento utilissimo per definire ciò che questa band ha rappresentato. E, incredibilmente, rappresenta ancora adesso – forse più che mai, nonostante lo scioglimento e la decimazione dei componenti.
Abbiamo una raccomandata dal Ministero dell’Inferno in tasca, ma compreremo i nuovi live degli Stooges. Anche se li avevamo già.
Fra agosto e novembre, chi ama gli Stooges si trova di fronte alla pubblicazione di ben sei diversi live della band (concentrati in due release – un album di Third Man e un box con cinque CD di Cherry Red): una curiosa circostanza, oltre che l’ennesima esca che nessuno dei collezionisti hardcore della band sarà in grado di evitare… la ingoieremo (se già non l’abbiamo fatto d’istinto, senza neppure pensarci) con gusto. Eppure è anche una manifestazione – a ben pensarci – del già citato spirito del tempo, nel senso che esiste un mood planetario che si esprime nelle strutture materiali (politica, società, istituzioni) e spirituali (la cultura, le attività quotidiane del genere umano…). In questo momento – dal mio poco privilegiato e non particolarmente brillante punto di vista, perlomeno – lo spirito del tempo è cupo, pesante, pieno di promesse non mantenute e di minacce tangibili. Intriso di sprazzi ed entusiasmi che si spappolano contro la barriera del nichilismo, dell’incognito e dell’impossibilità a reagire efficacemente.
È proprio sullo sfondo di questo quadretto postmoderno, fra Bosch e Sturmtruppen, che si innestano le nuove uscite live griffate Stooges, come una colonna sonora composta appositamente per l’occasione – anche se si tratta di materiale d’archivio di circa 50 anni fa.
Il primo richiamo, quasi una sorta di intro, è arrivato (peraltro con un lieve ritardo rispetto alla data di uscita annunciata) nella seconda metà di agosto in forma di un CD/LP intitolato Live At Goose Lake August 8th 1970 e pubblicato dalla label di Jack White. Roba seria, mai circolata prima in forma integrale e scovata in un fienile del Michigan, dove giacevano le bobine originali. Premi play o appoggi la puntina sul microsolco (come preferisci) e a nemmeno metà del pezzo d’apertura, “Loose”, la band inciampa, frana, s’incasina come un gruppo di liceali alle prime prove in cantina. Da lì in poi è un volo a franare – mi perdonerà Ivano Fossati per la citazione storpiata del testo scritto per la Berté – in riff urticanti ben noti, ragli iguaneschi, ritmi tribali e linee di basso telluriche (sì il basso c’è, anche se per 50 anni è stato sostenuto che in questo concerto il povero Dave Alexander non avesse suonato, perché troppo sfatto, e quindi cacciato subito dopo… c’è eccome: e non è neppure quello che sbaglia di più – nevvero Mr. Osterberg?).
Come tutti gli avvertimenti di una certa classe, è quasi un avviso bonario sibilato da un serpente, anche se nella miglior tradizione sussurra che le cose potrebbero peggiorare di molto: la scaletta è tutto Fun House suonato in maniera tossica e zoppicante, ma feroce e coerente con ciò che ci si poteva attendere dalla band allora. Un caos che fa male, ma ti tiene in qualche maniera vigile e curioso. Un feeling magari non rigenerante – ma di sicuro eccitante.
E poi arriva il box di Cherry Red, con quel titolo minaccioso come un DPCM di lockdown anti-Covid annunciato durante la tua festa di compleanno, appena prima di tagliare la torta: You Think You're Bad Man. Tu pensi di essere cattivo? E allora beccati questa. Una botta di 5 live che fotografano gli ultimi mesi di Iggy & The Stooges, l’era Raw Power per intenderci, con James Williamson alla chitarra – in pratica una cronaca della caduta libera e dello schianto finale. Il rumore della tragedia. La colonna sonora del disfacimento. L’orchestra del fallimento. La transustanziazione della miseria in ferocia e della ferocia in catalessi.
Fra il 1973 e il 1974 Iggy, gli Asheton e Williamson sono allo sbando. Mollati dalla loro etichetta e management, si arrabattano con live improbabili cercando di sbarcare il lunario e promuovere il loro album. Ma quasi nessuno vuole più saperne di loro. Sono eroi decaduti, annaspanti in un mare di malasorte, eccessi e psicosi. Persino la droga è un lusso in un momento simile… sono così al verde da non potersela permettere.
Si parte con un concerto del 16 settembre 1973 al Whisky A Go-Go di L.A. (già pubblicato da Revenge Records nel 1988). Poi arriva quello al Michigan Palace di Detroit (che nel 1976 venne usato per la rima metà del live Metallic KO): una specie di incidente ferroviario a Disneyland, registrato con un microfono seppellito in un bidone dell’immondizia che a mala pena restituisce la ferocia della performance degli animali feriti che si agitano sul palco. A seguire un live a Baltimora del novembre 1973 (la leggenda narra che il bootleg sia stato registrato con un mangianastri nascosto negli slip di un biker: il suono sembrerebbe confermarlo, ma forse c’era un problema di dimensioni, all’epoca) e uno a New York, la notte di capodanno del medesimo anno. Entrambi pubblicati da Bomp! anni fa (coi titoli di Double Danger Vol. I e Vol. II), scaricano una colata di pece e anfetamina, perennemente in bilico fra il crollo ineluttabile e un’euforia tanto ingiustificata quanto contagiosa. Perché l’odore del male e del pericolo sono come popper lasciato a evaporare sui radiatori di una stanza.
Il gran finale, nel CD numero 5, è il rantolo della bestia morente: il live al Michigan Palace del 9 febbraio 1974, l’ultimo – e poi dopo, per quasi 30 anni, il vuoto. Lo show, che costituisce il piatto forte del vecchio Metallic KO, è proposto per intero in tutta la sua catartica e disperata sventura: il pubblico che insulta e provoca, Iggy che risponde, la band che si sgretola… non manca nulla.
Risultato: sei affreschi sonici maledetti e irresistibili, come – del resto – tutta la serie di live (bootleg, semiufficiali e ufficiali) che dalla metà degli anni Settanta hanno fatto capolino sul mercato col contagocce. A ben vedere, se di primo acchito sembra che una simile ondata di tsunami improvvisa, nel giro di poche settimane, sia poco più che una barzelletta a uso e consumo di pochi collezionisti monomaniaci e di etichette più o meno sconsiderate che puntano sul nome più che sulla qualità, viene il tangibile sospetto che sotto ci sia davvero qualcosa di più elevato. Come, appunto, l’idea di zeitgeist o di una sua porzione.
Perché in fondo le nostre “vecchie” vite, ormai da diversi mesi, sono diventate come un Iggy Pop al Michigan Palace. In tutù e guanti argentati, di fronte a un motociclista del Michigan che lo ha bersagliato con decine di uova per metà concerto: lui vorrebbe affrontarlo, gli si para davanti e si prende un ceffone della potenza di una lavatrice scagliata in faccia. Barcolla, poi torna a sul palco, prova e riprendere da dove si era interrotto, ma ormai la frittata è fatta.
Noi osserviamo, ci sentiamo un po’ lui, ma siamo anche sollevati per il fatto di non esserlo – mentre ci facciamo fare piercing ai timpani dalle sfuriate di chitarra e dal caos da torre di Babele prodotto dalla band. Perché è così che funziona: è come ascoltare le registrazioni di una battaglia, nella loro terribile e fascinosissima ferocia. Per un momento ci sentiamo quasi bene, come se avessimo trovato un bel cartello “ne usciremo migliori” appeso a un balconcino del cervello. Eppure sappiamo che è già tutto andato a puttane, ma affrontare le paure in forma surrogata è come una dose di endorfine in vena, che ci fa ghignare di goduria sotto la mascherina.
Abbiamo una raccomandata dal Ministero dell’Inferno in tasca, ma compreremo i nuovi live degli Stooges. Anche se li avevamo già.
[Articolo pubblicato su Rolling Stone Italia il 4 novembre 2020 – https://www.rollingstone.it/musica/storie-musica/siamo-fottuti-come-iggy-pop-negli-ultimi-concerti-degli-stooges/537891/]