Zen Arcade: l'incubo più bello
"L’abbiamo fatto e basta. Vivevamo quello che facevamo": storia di un disco epocale
Nel novembre del 2018 scrivevo per il sito di Rumore una breve monografia su Zen Arcade degli Hüsker Dü. Sono passati quasi sei anni da quel giorno e, or ora, ne sono trascorsi quasi 37 dalla mattina in cui Andreino R., a scuola, mi allungò una C-90 un po’ scarabocchiata con Zen Arcade registrato (non ricordo, onestamente, cosa ci fosse oltre a quello: probabilmente un po’ di pezzi vari riempitivi, come si usava fare per non lasciare troppi minuti di nastro vuoto)… una vita fa. Non azzardo considerazioni supplementari sul tema, giacché da un po’ di giorni mi sembra che mi abbiano rubato tutto e non è decisamente il momento di fare bilanci o riflessioni – ah già, poi mi pare stia per scoppiare la terza guerra mondiale, quindi sticazzi di tutto il resto. Meglio stringere i denti, chiudere gli occhi e cantarsi in loop “Turn on the news” in testa.
Dunque bando ai farfugliamenti. Ecco il pezzo sul disco. Un grande disco. Un disco indispensabile. Così come lo sono le outtake e i demo incisi con il compianto Spot, che vi invito a cercare (in Rete sono piuttosto facili da reperire… non siate pigri). Questo è il Tommy dell’hardcore e della musica indipendente anni Ottanta. Solo che questo sogno (spoiler: la storia è basata su un incubo) è meglio di Tommy… change my mind.
Ecco la versione uncut e non editata del mio vecchio articolo. Enjoy.
“Tommy, molla quel flipper”: la sala giochi zen
Negli anni Ottanta, se vivevi nella provincia più o meno estrema, spesso capitava di confonderti o di prendere lucciole per lanterne. Magari raccattando nozioni per sentito dire e facendoti idee di terza-quarta mano, riportando più o meno malamente cose sentite da altri la cui attendibilità veniva data per scontata, ma chissà… è così che, quella mattina di ben più di 30 anni fa in cui mi passarono un nastro con Zen Arcade, restai malissimo: mi avevano detto – e ci credevo – che gli Hüsker Dü andavano velocissimi, come schegge. Invece quello che sentivo non era neppure lontanamente paragonabile alle galoppate stile primi DRI che mi aspettavo. E meno male, perché in modo del tutto casuale, cercando altro, mi imbattei in un disco di quelli che cambiano le vite.
È il 1984 quando – dopo il devastante debutto (il disco live Landspeed Record) e il più melodico Everything Falls Apart – il trio di Minneapolis sgancia la bomba destinata a scuotere dalle fondamenta la scena legata al fermento hardcore punk, ma anche quella del nascente indie rock/college rock made in USA. Un doppio album, concept, in cui i semi che germogliavano nei precedenti lavori giungono alla maturità, forgiando un sound che unisce melodie calde e avvolgenti a una rabbia spigolosa, carica come un cielo temporalesco. In queste composizioni c’è l’essenza del rituale di passaggio dalla gioventù all’età adulta, ma anche tutto il disagio dell’America reaganiana e di chi la viveva stando ai confini dell’impero, osservandone il declino e i problemi, vivendoli sulla propria pelle e con poche possibilità di risolverli.
La band sembra essere perfettamente consapevole di avere per le mani una specie di arma letale, tanto che in fase di lavorazione dell’album (nel 1983) Bob Mould dichiara alla fanzine Matter: “Stiamo facendo qualcosa che sarà più grande del rock’n’roll… non so ancora cosa ne uscirà esattamente, stiamo dando forma alla faccenda, ma supererà l’idea di punk rock e roba simile”.
Detto fatto: nell’ottobre del 1983 Mould, Hart e Norton, insieme al leggendario Spot – il tecnico del suono “resident” della SST – entrano in studio. In 45 ore incidono 25 pezzi, che poi mixano in altre 40 ore: tempi da box in Formula Uno, che indicano una preparazione meticolosa alla vigilia dell’ingresso in sala d’incisione, tanto che tutti i brani, in pratica, sono stati infatti registrati in una sola take (a parte un paio).
A fare da filo conduttore per i 23 pezzi inclusi nella scaletta finale del doppio album c’è una storyline nata senza premeditazione. Anzi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Zen Arcade è un concept quasi per caso – o meglio, un concept che è divenuto tale in maniera naturale, quasi istintiva. Lo spiega bene Mould nella propria autobiografia di qualche anno fa: “Zen Arcade nacque come un disco qualunque: avevamo qualche canzone e un po’ di idee sparse. A un certo punto capimmo che avrebbe potuto essere qualcosa di più e ci facemmo più ambiziosi. Ma non ci siamo mai messi lì a dire ‘ora scriviamo un’opera semi-autobiografica’ […]. Non c’è stato uno sforzo deliberato per creare un personaggio che riassumesse le nostre situazioni personali, ma alla fine questo è accaduto. […] Abbiamo solo cominciato a scrivere le canzoni e a delineare a grandi linee dei personaggi […]. Il lavoro è durato dalla fine del 1982 e per quasi tutto il 1983. Una volta che ci siamo accorti che c’era una linea narrativa il flusso si è fatto più chiaro ed è diventato più facile unire i pezzi del puzzle”.
La storyline in realtà non sembra essere proprio univoca, nel senso che nel corso degli anni la si è vista raccontare e interpretare in modi diversi. I punti più riconoscibili del plot sono questi: un ragazzo appassionato di computer e videogame, con una situazione familiare disastrata, fugge di casa e si unisce a una setta religiosa; qui incontra una ragazza, che però muore di overdose. Dopo una serie di peripezie (forse finisce anche in ospedale psichiatrico) viene assunto come game designer di videogiochi. Ma in realtà era tutto un sogno… la mattina si sveglia e va a scuola. Come sempre.
Un disco circolare, dunque, in cui sogno e realtà si confondono, poi separarsi definitivamente e lasciare spazio – con un taglio netto e doloroso – al quotidiano, ai fatti nudi e crudi, alla morsa della vita di ogni giorno. Un disco circolare anche perché taglia esattamente come il disco di una sega circolare: affonda nell’anima e non ti molla più. E tutto questo a dispetto di un certo understatement di Mould, che ha detto: “Zen Arcade è considerato un lavoro di rottura pieno di significati profondi. In realtà noi provavamo ed eravamo in tour senza mai fermarci, non abbiamo pensato troppo a tutta la faccenda. L’abbiamo fatto e basta. Vivevamo quello che facevamo. Ne è scaturita una specie di dichiarazione spontanea, di pancia. E ci sembrava la cosa giusta da fare”.
Concordiamo con te, Bob: era la cosa giusta da fare. Così come ci piace la risposta che hai dato alla domanda “perché fare un doppio concept che finisce con un’improvvisazione di 14 minuti vi è sembrato punk rock?”… hai detto semplicemente: “Lo era, perché era una cosa che andava contro al punk”.
[Pezzo originariamente pubblicato nel sito di Rumore il 17 novembre 2018 – https://rumoremag.com/2018/11/17/husker-du-zen-arcade]